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dal gioco all'agonismo

Dal gioco all’agonismo
 (di Adriano Dell’Eva)


Se si considera l’espressione ludico-motoria nell’evoluzione di un essere umano, si può affermare, che all’origine c’è il gioco e poi viene lo sport. Pertanto, potremmo considerare come valida formulazione, senza timore di smentita, la proporzione concettuale: il gioco sta al bambino come lo sport sta all’adulto. Ovviamente il passaggio tra un ambito e l’altro non è automatico ed immediato, ma è una graduale evoluzione attraverso delle tappe di maturazione. Il denominatore comune al gioco e allo sport è il divertimento: il piacere, la soddisfazione, l’appagamento che si ricava nel vivere momenti contrassegnati dal confronto con se stessi e/o gli altri, in una dinamica che diventa coinvolgente ed emozionante, per alcuni aspetti magica. Ovviamente il divertimento assume diverse valenze e significati a seconda se si è bambini, adolescenti o adulti.
Se si chiede a un bambino tra i cinque e i dieci anni di intraprendere un’attività propria di una disciplina sportiva per lui sconosciuta, in tutta probabilità vi sentirete rispondere con una domanda: “E’ un gioco per giocare o un gioco per vincere?” interpretando così, a modo suo, la differenza tra gioco e sport. Nella semplicità i piccoli ci indicano dove sta la differenza, senza dover ricorrere a complicate ed astratte teorie.
Trovare un bambino che non gioca è impossibile, pertanto non è esagerato affermare che il bambino è un’entità che vive e cresce nel gioco, esprimendosi attraverso un linguaggio ludico. C’è chi, studiando la relazione gioco motorio e bambino non ha esitato a definire la motricità ludica “l’autocura”, di cui il bambino si serve (ma, spesso, non solo il bambino), per elaborare tensioni, ansie e disagi.
La funzione del gioco nel mondo dei piccoli e dei ragazzi è fondamentale per il loro benessere e la loro crescita, quanto lo sono il cibo e il sonno.
Non è un caso che la psicologia dell’età evolutiva consideri il gioco, in un contesto psicomotorio, come mezzo privilegiato per aiutare un bambino a comprendere e a risolvere i suoi conflitti.
Il bambino gioca col movimento e nel movimento, per mezzo della motricità, stabilisce relazioni e rapporti tra sé e gli oggetti, il tempo, lo spazio, per interpretare, per sentire, il mondo che lo circonda: attraverso il gioco egli riflette, ragiona, elabora concetti, sentimenti ed emozioni.
Una delle principali caratteristiche del gioco motorio è la gratuità: viene praticato senza che necessariamente si miri ad ottenere qualcosa, ma lo si esegue solo per se stesso, per il semplice piacere di viverlo.
Se il gioco motorio viene vissuto e gestito con una finalità agonistica, sorretto da spinte e motivazioni competitive, esso si trasforma in sport. Lo sport per il fatto di essere caratterizzato dalla componente agonistica non significa che sia una “robaccia”, o qualcosa da demonizzare.
Il piacere della competizione è tipico del vissuto corporeo di adolescenti e adulti, non lo è nel bambino, in cui il piacere è ancora in gran parte dentro il corpo, non fuori nella mente (controllo) o nel risultato (performance atletica).
Sono diverse le correnti di pensiero nell’ambito della psicologia che concordano nel considerare l’agonismo come la manifestazione matura, costruttiva e creativa dell’aggressività, utilizzata culturalmente per l’autorealizzazione di un individuo.
L’aggressività, costituisce un’energia canalizzabile e finalizzabile: lo sport rappresenta uno di quei campi in cui essa, sotto forma di attività agonistica, può esprimersi in maniera costruttiva attraverso modelli socialmente accettati e condivisi.
Pure i bambini nel loro modo di agire e giocare sono condizionati da forti spinte aggressive. Tali spinte costituiscono una componente fisiologica naturale della nostra identità psichica e sociale. L’aggressività infantile si esprime attraverso i modelli che i fanciulli assorbono dal contesto sociale in cui vivono. Sono numerose le ricerche scientifiche che comprovano ciò: dalle sperimentazioni degli anni 60’ di Albert Bandura con il pupazzo Bobo, alle recenti scoperte delle particolari funzioni dei neuroni a specchio sul nostro comportamento.
Se i nostri piccoli vivono in un ambiente in cui è forte e predominante la presenza di modelli sportivi, caratterizzati da un’esasperata carica competitiva, incentrata sul risultato agonistico ad ogni costo, è naturale che il gioco, assumendo una valenza diversa, per loro non è più uno strumento di crescita. Per svariate ragioni non solo di natura sociale e psicologica, è doveroso che un ragazzo all’età di 12-13 anni pratichi sport. Tuttavia, alla pratica sportiva, i bambini devono essere avviati e accompagnati gradualmente e adeguatamente in rapporto all’età e al grado di maturazione, offrendo loro dei modelli che li aiutino a vivere in modo costruttivo e creativo la loro carica aggressiva. In età evolutiva il risultato sportivo non deve essere considerato un fine ma un mezzo di formazione della personalità.
Come si puntualizzava poc’anzi, sono gli adolescenti o gli adulti sportivi che ricavano dall’agonismo il piacere della competizione. Al bambino, invece, il gioco motorio conferisce una gran parte di piacere a seguito del diretto legame e immediata relazione esistente tra corpo, movimento e mondo emozionale. Invece, in età puberale e ancor più in quella adulta, il soggetto vive lo sport attraverso la mediazione della mente, per mezzo della quale egli esercita un controllo sulla propria performance atletica, strettamente connessa al risultato.
Progressivamente ma con gradualità e continuità, il bambino deve essere accompagnato in un percorso contrassegnato da passaggi che lo vedono coinvolto, all’inizio, in un gioco spontaneo, in seguito, in un tipo di gioco semistrutturato e strutturato, successivamente, in una modalità di gioco-sport o mini-spor, per approdare alla fine alla pratica dello sport vero e proprio. L’evoluzione ludico-motoria del bambino procede, dal punto di vista pedagogico e didattico, attraverso questi passaggi, con l’impiego da parte dell’allenatore, di una metodologia, ormai da tempo collaudata, incentrata sull’approccio della polivalenza, multilateralità e polisportività.
In quest’ottica lo sport completa l’opera che il gioco ha iniziato.
Sono svariate ed innumerevoli le ragioni che spingono le persone a praticare sport. Alcuni si muovono e lottano con determinazione in un confronto, e non scontro, ludico-competitivo con se stessi o gli altri, e per questo, di certo, non snaturando o svilendo la propria umanità, anzi vivendola più pienamente. Altri agiscono motoriamente per il semplice piacere funzionale che ne ricavano, altri ancora si attivano fisicamente nell’intento di salvaguardare o migliorare il proprio stato di salute.
Nel significato comune, oggi intendiamo per sport un’attività fisica che si esplica almeno su tre livelli diversi di investimento emotivo: per competizione, per gioco, come attività salutare. Questi livelli dovrebbero presentarsi insieme integrandosi l’uno con l’altro per conferire a chi pratica lo sport un sano senso di appagamento e di equilibro psicofisico. L’atleta che, mosso dall’intento di ottenere dei risultati prestigiosi, si sottopone a carichi di allenamento eccessivi, inadeguati ed estenuanti, pur consapevole di porre a serio rischio il proprio stato di salute, si trova nella condizione di vivere lo sport privandolo di due fondamentali valenze quella ludica e quella salutistica. Spesso si nota che diversi campioni non riescono ad ottenere gli stessi eccellenti risultati conseguiti qualche anno addietro, non tanto perché sono invecchiati ma perché non riescono a ritrovare quello stato di gioia ed il piacere ludico nel praticare il loro sport. L’esasperata e smodata pratica agonistica può creare seri problemi di diversa natura, poiché innesca un meccanismo perverso di alienazione dell’individuo allo sport, con le conseguenze che tutti conosciamo, come il fenomeno del doping o dell’illecito e frode sportiva. In questa prospettiva la voglia di vittoria viene barattata con l’imbroglio e l’individuo atleta non è più creatore di un risultato, ma diventa strumento, a servizio di una logica dove tutto si giustifica alla luce dell’eccellenza di un esito sportivo anche se questo non è autentico.
Il bambino che non gioca non è un bambino, ma l’adulto che non gioca ha perso per sempre il bambino che ha dentro di sé.” (P: Neruda)

 

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